Foto/Industria 2019: 11 grandi fotografi sulla fotografia industriale a Bologna e al MAST per vedere e costruire il mondo

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Noi siamo stati discepoli delle bestie nelle arti più importanti: del ragno nel tessere e nel rammendare, della rondine nel costruire le case, degli uccelli canterini, del cigno e dell’usignolo nel canto, con l’imitazione.                                                              Democrito (68B 154 DK)

Nella frase di Democrito, tra i più misteriosi filosofi dell’antica Grecia, sono contenuti gli elementi principali di questa edizione di Foto/Industria. L’imitazione è il processo alla base della produzione di ogni fotografia, che prende spunto dal mondo e lo trasforma in immagine. Il costruire è il tema portante delle undici mostre intorno a cui la Biennale si compone e si organizza, lungo un percorso sfaccettato che accumula elementi di riflessione su un’attività cruciale per l’intero genere umano. Il gesto del costruire è profondamente radicato nella natura stessa degli esseri umani. Non si tratta soltanto di una questione di sopravvivenza (l’uomo costruisce innanzitutto per abitare, per difendersi e per attaccare), ma anche dello slancio verso il futuro che costituisce l’inestinguibile fiamma che illumina la nostra specie, in termini sia individuali sia collettivi. “Fare delle cose equivale a un processo di crescita”1, scrive Tim Ingold in un volume che lega questo esercizio alle discipline dell’antropologia, dell’archeologia, dell’arte e dell’architettura. È una questione darwiniana. Se l’industria costituisce nel suo complesso una sorta di apologia del fare, del costruire e del trasformare, animata da una costante tensione espansiva, innumerevoli altre sono le attività umane orientate verso questa direzione, più o meno grandi, più o meno importanti, più o meno diffuse. Il risultato viene identificato con il nome di “tecnosfera”, da quando il geologo Peter Haff ha coniato questo termine nel 2014, ritornando successivamente sull’argomento in numerose occasioni: “La Terra è avvolta da una fitta rete di dispositivi umani interconnessi e strutture costruite: questa è la tecnosfera. I suoi componenti richiedono energia per funzionare, materiale per crescere e ripararsi e informazioni per coordinare le esigenze con l’offerta”.

La tecnosfera si somma e si frappone così ai diversi strati che compongono e circondano la terra, dalla litosfera all’atmosfera, dall’idrosfera alla biosfera. In pratica include tutto ciò che l’uomo ha aggiunto all’ambiente naturale. Si tratta di una quantità talmente elevata di cose che, ovviamente, è possibile farne soltanto pochi esempi: utensili, reti informatiche, fabbriche, strade, armi, impianti energetici, case, città, fino all’inquinamento atmosferico. La tecnosfera ha un peso, stimato in circa 30 miliardi di miliardi di tonnellate (senza che ciò tuttavia modifichi la massa del pianeta, poiché è formata da elementi preesistenti), ed è composta da un’infinita varietà di materiali. Ha un’ulteriore caratteristica che la differenzia da tutte le altre sfere terrestri: è la più giovane, ma ha già avuto un enorme impatto sul sistema globale per via della sua inefficienza, ovvero di una sostanziale incapacità di autosostenersi. Come in una delle tante parabole distopiche che occupano l’attuale rappresentazione del futuro, il genere umano prende coscienza della sua più maestosa costruzione nel momento in cui questa ne minaccia la fine. La sfida è aperta.

Foto/Industria esplora questo tema secondo un criterio di campionatura. Senza alcuna pretesa di esaustività, impossibile obiettivo in un campo tanto esteso, ciascuna mostra costituisce uno specifico approfondimento di un aspetto cruciale della sconfinata materia del costruire. Non è soltanto una questione di numerosità dei soggetti, ma anche dei punti di vista da cui possono essere osservati e delle conseguenti implicazioni. In sostanza, qui non interessa solo prendere in analisi cosa costruiamo, ma anche come, quando, perché lo facciamo. A partire dalla tecnologia, si aprono riflessioni che spaziano negli ambiti della filosofia, dell’antropologia, della storia, dell’economia, dell’etica e della politica. In particolare, è possibile individuare quattro macro-aree su cui incidono i lavori in mostra.

Albert Renger-Patzsch, André Kertész e Luigi Ghirri si concentrano sui processi di costruzione e sul loro carattere trasformativo. Il primo documenta il rapporto tra il paesaggio e le più tipiche installazioni industriali dell’Ottocento, riscontrando (ovvero inventandosi letteralmente) tra loro un insospettabile equilibrio. Kertész celebra la produzione di nuovi materiali tecnologicamente avanzati descrivendo con precisione assoluta ogni dettaglio della loro superficie. Ghirri, che di Kertész era un grande ammiratore, fa degli oggetti industriali il soggetto di un inedito approccio alla natura morta, interrogandosi allo stesso tempo sulla natura delle cose e sulle modalità della loro rappresentazione.

Lisetta Carmi, Armin Linke e Délio Jasse impostano un discorso sociale e politico. L’uomo al lavoro è protagonista assoluto delle fotografie di Carmi, che ne racconta in immagini insieme cliniche e partecipate la grande fatica. Linke investiga i fondali oceanici svelando uno spazio costruito generalmente occultato alla vista, al centro di intrighi geopolitici su scala universale. Jasse racconta la storia di Luanda, capitale dell’Angola, tra le metropoli africane con il più alto tasso di crescita, dove a costruire sono soprattutto imprese cinesi e internazionali.

David Claerbout e Yosuke Bandai guardano ai resti dell’umana febbre di costruire. Claerbout prende a campione una delle più grandi imprese architettoniche dell’epoca, l’Olympiastadion di Berlino, simulandone la dissoluzione nell’arco di mille anni. È una serissima farsa della celebre teoria del “valore delle rovine”, secondo cui il glorioso decadimento dell’edificio sarebbe parte del suo progetto. Bandai lavora invece con i rifiuti, ingrediente particolarmente rilevante della tecnosfera: anziché metterli al centro di un’analisi tecnico-scientifica, tuttavia, li utilizza come base per la costruzione di sculture effimere e colorate, muovendosi su un doppio registro semantico. Stephanie Syjuco e Matthieu Gafsou si proiettano nel futuro e sottolineano la natura circolare e inarrestabile del costruire. Syjuco ripercorre con Google Earth a San Francisco l’itinerario del cable car filmato dai Miles Brothers nel 1906, mostrando una città completamente ri-costruita dall’uomo e dagli algoritmi alla base del software.

Gafsou mette insieme un ampio documentario fotografico sul movimento del transumanesimo, secondo cui la tecnologia dovrebbe essere sfruttata al massimo per aumentare le performance fisiche e cognitive, fino al miraggio dell’immortalità. È un trionfo di chip, protesi e ingegneria genetica. Dopo avere costruito tutto ciò che lo circonda, il genere umano costruisce sé stesso.

Infine alla Fondazione MAST gli artisti Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier danno vita attraverso immagini, video e installazioni a una narrazione visiva, tra arte e scienza, dei segni indelebili lasciati dal genere umano sugli strati geologici del pianeta. La Biennale ospita la mostra “Anthropocene” con l’obiettivo di stimolare e diffondere una riflessione che permetta di raccogliere, preservare e proteggere, in natura, quanto ancora rimane di ciò che è stato costruito.

Il costruire e la tecnosfera sono fenomeni globali. Per questo motivo gli artisti che li rappresentano in questa edizione di Foto/Industria vengono da ogni angolo del mondo: Italia, Europa, Asia, Africa e America.

L’internazionalità è un attributo imprescindibile di una simile ricerca. Ma non è questa l’unica tautologia della Biennale. Il punto è che gli autori selezionati riflettono sul costruire (insieme a molti altri specifici argomenti che rientrano nei loro lavori) mentre costruiscono qualcosa d’altro. Le loro opere sono costruzioni. Innanzitutto da un punto di vista pratico e concreto. Tranne rare eccezioni (per esempio le proiezioni, che tuttavia sfruttano ugualmente dei supporti fisici appositamente realizzati), hanno un corpo, un volume, una consistenza. Hanno un peso che si somma ai miliardi di miliardi di tonnellate di tutto il resto. In secondo luogo, costituiscono delle autentiche impalcature astratte, universi alternativi perfettamente architettati. Come scriveva Nelson Goodman nel suo libro Vedere e costruire il mondo3, ogni opera d’arte, in quanto simbolo, funziona analogamente a una versione del mondo, ovvero definisce un contesto rotondo e credibile.

In fotografia ciò vale ancora più chiaramente, secondo una logica ulteriormente circolare. Vediamo oggetti costruiti prima dai loro fabbricanti, poi dai fotografi che li ri-producono. Questo accade sia con le immagini più classiche e tradizionali sia nelle più recenti sperimentazioni, tra cui qui non ci sono distinzioni, facendo della Biennale una sorta di ricognizione sulla storia e l’eterogeneità della pratica fotografica. Passato, presente e futuro si intrecciano e si sovrappongono. A metà tra archeologia e fantascienza, Foto/Industria costituisce una finestra aperta sulle nostre radici e il nostro avvenire.

Intervento di Francesco Zanot, Direttore Artistico Foto/Industria

Elenco Mostre, sedi e biografie autori

YOSUKE BANDAI, A CERTAIN COLLECTOR B. Istituzione Bologna Musei, Museo Biblioteca della Musica, Strada Maggiore, 34

Yosuke Bandai è un artista multidisciplinare che utilizza la fotografia come principale linguaggio espressivo, associandola spesso con la scultura e il video.

LISETTA CARMI, PORTO DI GENOVA. Genus Bononiae, Oratorio di Santa Maria della Vita, Via Clavature, 8

Nel 1964, dopo appena quattro anni dalle sue prime fotografie, Lisetta Carmi realizza uno dei più significativi reportage del dopoguerra sul tema del lavoro. La sua indagine si sofferma sul porto di Genova e sul suo rapporto profondo, ma al tempo stesso contraddittorio, con la città. Rigidamente divisa in classi sociali che vivono in aree urbane ben delimitate, la città è intrisa di moralismo cattolico nei quartieri alti e di ortodossia comunista nei quartieri operai, senza spazio né fisico né mentale per il dialogo.

DAVID CLAERBOUT, OLYMPIA. Palazzo Zambeccari – Spazio Carbonesi, Via De’ Carbonesi, 11

The real time disintegration into ruins of the Berlin Olympic stadium over the course of a thousand years. Olympia è una ricostruzione digitale dello stadio Olimpico di Berlino, collocata in una dimensione spazio-temporale privata della presenza umana e consegnata ai cicli della natura. In accordo con la teoria del “valore delle rovine”, secondo cui il decadimento dell’edificio sarebbe pre-incorporato nel suo stesso progetto, l’opera evoca una dinamica di creazione-dissoluzione determinata dall’inesorabile forza della natura.

MATTHIEU GAFSOU, H+ . Pinacoteca Nazionale Palazzo Pepoli Campogrande, Via Castiglione, 7

Il transumanesimo è un movimento culturale che mira ad aumentare le capacità del corpo umano attraverso l’uso della scienza e della tecnologia. Questo concetto è già presente in banali dispositivi di uso quotidiano, come I pacemaker o gli smartphone. Ma rimanda anche a fantasie che postulano l’immortalità o addirittura prevedono l’abbandono del corpo biologico in favore della macchina.

LUIGI GHIRRI, PROSPETTIVE INDUSTRIALI. Palazzo Bentivoglio, Via del Borgo San Pietro, 1

Come la maggioranza dei colleghi, Luigi Ghirri affianca al lavoro di ricerca una serie di incarichi commerciali con industrie e altri committenti. Lo fa in maniera molto particolare, introducendo nelle sue produzioni una quota molto evidente della propria poetica, cosicché è possibile riconoscere nelle immagini una serie di motivi ricorrenti del suo più noto universo di ricerca. Pure se corrette e puntuali, le fotografie professionali di Ghirri non sono mai un trionfo di tecnica, né pura celebrazione del prodotto, ma hanno sempre un riconoscibile tono sobrio e pacato.

DELIO JASSE, ARQUIVO URBANO. Fondazione del Monte di Bologna, Palazzo Paltroni, Via delle Donzelle, 2

Delio Jasse ha dedicato i suoi ultimi lavori allo studio e alla rappresentazione della capitale della sua nazione d’origine: Luanda. Dopo vent’anni di guerra civile, l’Angola ha vissuto un periodo di forte rilancio economico e sociale dalla fine del secolo scorso, fino al collasso avvenuto nel 2014 in seguito al crollo del prezzo del petrolio, che costituisce insieme alle risorse minerarie la più importante fonte di sussistenza dell’intero paese. La fotografia è il principale strumento d’indagine dell’artista africano.

ANDRÉ KERTÉSZ, TIRES / VISCOSE. Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Casa Saraceni, Via Luigi Carlo Farini, 15

Nel 1936, assunto dall’agenzia Keystone, André Kertész lascia Parigi per stabilirsi negli Stati Uniti. L’arrivo a New York è difficile. A parte qualche immagine pubblicata su “Vogue” e “Harper’s Bazaar”, il fotografo stenta a farsi un nome tra committenti dalle esigenze molto lontane dalla sua pluriennale esperienza parigina.

ARMIN LINKE, PROSPECTING OCEAN. Biblioteca Universitaria di Bologna, Via Zamboni, 33/35

Prospecting Ocean segna il culmine di tre anni di ricerche. Fra il 2016 e il 2018 Armin Linke ha visitato alcuni fra I più importanti laboratori di scienze marine al mondo, ha intervistato esperti di diritto marittimo presso la International Seabed Authority di Kingston, in Giamaica, ha assistito alla conferenza internazionale sul futuro degli oceani organizzata nel 2017 presso le Nazioni Unite a New York e ha parlato con gruppi di ambientalisti in Papua Nuova Guinea. L’opera svela luoghi e situazioni solitamente invisibili.

ALBERT RENGER-PATZSCH, PAESAGGI DELLA RUHR. Pinacoteca Nazionale, Via delle Belle Arti, 6

Albert Renger-Patzsch è considerato uno dei principali esponenti della Nuova Oggettività. Partendo, nel 1925, da immagini di oggetti e scatti pubblicitari realizzati per l’industria editoriale e altri committenti commerciali, è diventato un maestro dello stile fotografico oggettivo, segnando come nessun altro l’estetica della fotografia degli anni venti e trenta.

 

STEPHANIE SYJUCO, SPECTRAL CITY. Istituzione Bologna Musei, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Via Don Minzoni, 14

Nel 1906 Harry, Herbert, Joseph e Earle Miles, passati alla storia come Miles Brothers, celebri pionieri del cinema muto, girano uno dei loro film più importanti. Si intitola A Trip Down Market Street e non è altro che la Fedele registrazione del percorso compiuto dal cable car attraverso il centro di San Francisco, partendo dalla 8th Street per arrivare fino all’Embarcadero da cui partono i traghetti che attraversano la baia.

EDWARD BURTYNSKY, JENNIFER BAICHWAL, NICHOLAS DE PENCIER, ANTHROPOCENE.  Fondazione MAST

Anthropocene è un progetto artistico che indaga l’indelebile impronta umana sulla Terra attraverso le straordinarie immagini di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier. Combinando fotografia, cinema, realtà aumentata e ricerca scientifica, i tre artisti danno vita a un’esplorazione multimediale di grande impatto visivo che documenta i cambiamenti determinati dall’attività umana sul pianeta e ne testimonia gli effetti sui processi naturali. Il progetto si basa sulla ricerca del gruppo internazionale di scienziati Anthropocene Working Group impegnato nel raccogliere prove del passaggio dall’attuale epoca geologica – l’Olocene, iniziata circa 11.700 anni fa – all’Antropocene (dal greco anthropos, uomo).

La Fondazione MAST

Ente non profit internazionale legato al gruppo industriale Coesia e concepito come tramite tra l’impresa e la comunità, la Fondazione MAST nasce nel 2013 con l’intento di condividere con la città la sua missione culturale. Laboratorio multifunzionale in cui sperimentare nuovi modelli di welfare aziendale, il MAST è un luogo aperto alla città, di condivisione e collaborazione che ospita diverse attività. La PhotoGallery con mostre temporanee dedicate alla fotografia industriale e del lavoro, curate da Urs Stahel, è oggi l’unica istituzione al mondo dedicata alle immagini del mondo del lavoro. 

INFO: Fondazione MAST, Via Speranza, 42 Bologna – https://anthropocene.mast.org/info/

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