La scoperta del Nepal, fra tradizioni, misticismo, santoni, contrasti e déjà vu

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Non avevo mai preso in considerazione un viaggio in Nepal. Non amo la montagna, odio il freddo e lo stereotipo comune lo vede come meta di trekking e di imprese epocali per raggiungere una tra le otto delle dieci vette più alte al mondo, record notevole. Ed è proprio la catena himalayana – Everest docet, con i suoi 8.848 metri di altezza!, unita alla sua posizione geografica – si tratta di un lembo di terra incastonato tra India e Tibet con una superficie di poco superiore alla Grecia – ad averne impedito la colonizzazione in ogni epoca storica. Un patrimonio artistico autentico e un profondo orgoglio nazionale che non hanno nulla da invidiare ai maestosi picchi. Per lasciare ogni viaggiatore a bocca aperta.

Tutto inizia a Kathmandu, principale porta d’accesso del Paese. Una capitale dalle mille contraddizioni, tanto amata quanto odiata. Una città vecchia che vede il suo cuore pulsante nella bellissima piazza Durbar – sono ancora tangibili i segni del terremoto che l’hanno fatta tremare nel 2015 – e allo stesso tempo una meta che si è svenduta al turismo di massa – negli anni ‘60 l’hippy trail dall’Europa all’Asia meridionale terminava proprio in Freak Street, fulcro del flower power… e della vendita di hashish! -. Metropoli caotica pervasa da una pace solenne, sacra e profana, miscela medievale – raffinati esempi le vicine Patan e Bhaktapur – in un disastro ambientale – è la settima città più inquinata del pianeta, tant’è che le montagne circostanti sono pressoché invisibili. Sa essere alla moda e sofisticata e un secondo dopo far stringere il cuore per la povertà dilagante e i 1500 bimbi di strada. 

Tante sfaccettature. Troppe per poterla descrivere. Perché Kathmandu va vissuta in prima persona

Milioni di tradizioni. A volte possono apparire assurde – vedi il culto della kumari, ragazza in prepubertà venerata come incarnazione vivente di una dea indù, macabre – inclinazioni tantriche prevedono la sacrificazione di polli, capre, bufali o indimenticabili; partecipare a una festa religiosa sarà un’esperienza memorabile del viaggio.

Non a caso in Nepal, induista per l’80% della popolazione, si respira perennemente un’aria di spiritualità e non c’è da stupirsi che sia il Paese natale di yoga e meditazione – pullulano centri ovunque – e niente meno che il Signor Siddhartha Gautama. Meglio noto come Buddha, viene alla luce nella città di Lumbini intorno al VI secolo a.C. da stirpe reale, dalla quale fuggirà per dedicarsi alla riflessione fino al raggiungimento dell’Illuminazione e alla successiva predicazione della sua filosofia. Qui, dove tutto ebbe inizio, milioni di pellegrini si recano ogni giorno per pregare nel Giardino sacro situato all’interno di un, non ancora terminato, parco religioso.

Selvaggia invece l’aria che si respira a Chitwan, il parco nazionale più visitato del Paese. Il modo migliore per esplorarne la giungla è di prender parte a un safari – le numerose agenzie locali vi proporranno pacchetti che spaziano dal classico jeep tour alle camminate guidate, dalle passeggiate sul dorso d’elefante alle gite in canoa – e avvistare il rinoceronte asiatico unicorno, l’orso giocoliere o la tigre del Bengala saranno esperienze da sogno; ma attenzione: se la guida urla “look” sappiate che in nepalese significa “nasconditi”!

E ora passiamo alla questione trekking: ho optato per una facile escursione di tre giorni nei dintorni di Pokhara – idilliaca la passeggiata sul lungolago -, scelta tanto naturalistica quanto etnografica. Per entrare in contatto con la gente di montagna – si raggiungono i 1900 metri di quota nell’Australian base camp – e conoscerne le tradizioni e di una vista mozzafiato sulle catene dell’Annapurna e dell’Himalaya. Villaggi rurali magici, resi ancor più speciali dalla mia accompagnatrice Laxmi – impegno che le ha fatto vincere numerosi riconoscimenti.

Ma non esiste viaggio in Nepal senza abbuffarsi! Il piatto nazionale, il daal bhaat, consiste in riso accompagnato da zuppa di lenticchie, verdure bollite e patate al curry, mischiati a proprio piacimento da ogni commensale – se mangiate con le mani utilizzate solo la destra -. Il piccante cibo newa sarà il paradiso dei carnivori, mentre il menù di montagna ha come primadonna la minestra di noodles, per scaldare corpo e anima. E come dimenticare i momo, il naan e i tanti dolci fritti da acquistare nelle bancherelle di strada? Un armonioso connubio tra influenza indiana e tibetana, una delizia per il palato e per il portafoglio (è estremamente economico)!

E l’esperienza più surreale? Partecipare al Shiva Raatri, il festival indù che si tiene ogni anno nella cittadina di Pashputinath per celebrare la fine dell’inverno, una mela in grado di attirare dal subcontinente decine di migliaia di pellegrini e sadhuMa se questo festival può apparire un cinema non si può non prendere sul serio la religione. Perché la cittadina segue alla lettera il credo induista e basterà recarsi sulle rive del fiume sacro Bagmati per poter assistere a una vera cremazione.

Un’esperienza intensa nella quale è d’obbligo portare rispetto alla famiglia del defunto chiusa nel suo lutto. Risulterà toccante veder bruciare un morto, ma ancora più forte è il ricordo dell’odore che si espande nell’aria e si sprigiona nelle narici, così pungente e acuto. Rievoco il lungo e profondo senso di inquietudine che lascia nell’animo. È come se l’interminabile cremazione – dura circa tre ore – amplificasse il senso di vuoto e di incertezza che la morte provoca, inevitabilmente.

Per concludere: <<il mio Nepal?>>. Quello dei continui déjà-vu, istantanee di momenti passati che riaffiorano alla mente come felici ricordi di un’esistenza già vissuta, o presunta tale, magari semplice frutto della mia immaginazione. Flashback che scuotono l’anima, tanto da farmi sentire di rivivere epoche passate e mi domando se nella vita precedente fossi stata nepalese. Il mio Nepal è quello che mi porto dentro. Namaste! 

testo e foto di Giulia Fraschini