Alla scoperta di San Miniato, città del buon vivere, appollaiata con vista sulla Valle dell’Arno

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In questi giorni in cui da un nemico invisibile che ha messo a nudo la nostra fragilità e la vacuità della presunta invincibilità dell’uomo siamo costretti a vivere tra le mura domestiche abbandonando abitudini, programmi e progetti, riscopriamo il valore e l’incredibile potenza della memoria. Riassaporiamo così momenti vissuti e relegati ‘in soffitta’ da quel vortice quotidiano e da quel correre continuo da un impegno all’altro cui si partecipa convinti che la sommatoria delle presenze sia indice d’importanza. La memoria ha il potere di portarci altrove, annullando i muri che ci imprigionano: un lampo ed ecco emergere un tour compiuto in un recente passato e su cui mi ero ripromesso di scrivere dopo il Vinitaly. Saltata l’annuale ‘festa’ del vino – ribalta mondiale di questa punta di diamante del ‘Made in Italy’ – sfoglio ricordi ed emozioni di quei giorni.

Il mio percorso nella memoria inizia dalla bellissima San Miniato che dai tre colli su cui è appollaiata domina – a metà strada fra Firenze e Pisa e tra Lucca e Pistoia (da cui “Città delle XX miglia” toscane) – la Valle dell’Arno: si può facilmente immaginare che non abbia avuto una vita molto tranquilla quando Firenze e Pisa erano due potenze. Il nucleo originario è sviluppato da un gruppo di Longobardi nell’odierna zona archeologica di Borgo San Genesio sito sulla Via Francigena che collegava Nord Europa e Roma. Per la posizione strategica San Miniato è punto di riferimento per gli imperatori germanici (nel Medioevo è conosciuta come San Miniato al Tedesco) da Ottone I che la nomina ‘sede vicariale’ con giurisdizione su tutta la Toscana a Federico II di Svevia che la arricchisce di un castello e di poderose fortificazioni.

Arrivarvi è emozionante. Si passa dallo splendido paesaggio toscano ai palazzi ricchi di storia: calpestando gli antichi selciati sembra di attraversare i secoli mentre con gli occhi si cercano i mattoni rossi della duecentesca chiesa di San Francesco, il palazzo del Municipio e l’affrescata facciata del Seminario la cui forma curva è dovuta all’antica cinta muraria e si giunge con una breve salita al prato del Duomo, famoso belvedere sulla val d’Arno. Si è nel centro duecentesco con il Palazzo dei Vicari dell’Imperatore vicino all’antecedente Torre di Matilde (secondo tradizione locale nei dintorni vi è nata Matilde di Canossa) ora campanile del Duomo. Questo costruito con mattoncini rossi ha un impianto trecentesco e architetture gotiche e rinascimentali e sulla facciata 26 dischi di ceramica colorata rappresentanti le stelle dell’Orsa Maggiore e Minore: gli splendidi originali si possono ammirare nel vicino Museo Diocesano di Arte Sacra unitamente a capolavori di Filippino Lippi, Fra’ Bartolomeo e Verrocchio. Con una breve ascesa si raggiunge la Rocca di Federico II – costruita tra il 1217 e il 1221 a completamento del sistema difensivo, distrutta nel luglio 1944 dalle truppe naziste e ricostruita in modo fedele per dimensioni e tecnica muraria nel 1958 – da cui si domina dai colli di Fiesole al mare. Sul prato antistante, la prima domenica dopo Pasqua si svolge la spettacolare Festa degli aquiloni costruiti secondo la tradizione toscana.

Queste sono solo alcune tra le tante magnificenze che si possono ammirare. Come tutta la Toscana anche San Miniato e la Valdera sono terra benedetta per il vino e producono alcuni vini in linea con le magnificenze culturali della zona. Peraltro un grande vino è un’opera d’arte come un quadro o una scultura.

Una delle aziende che volevo rivedere a Vinitaly è di San Miniato: Pietro Beconcini Agricola. È una splendida storia di passione per la terra iniziata quando il nonno dell’attuale responsabile (Leonardo) acquista con grande sacrificio la terra coltivata come mezzadro. Nel 1990, il nipote compie la scelta vincente: produrre vini di alta qualità che rappresentino l’anima del territorio. Seleziona il meglio dei propri vigneti e imposta una ricerca sui cloni del Sangiovese per produrre un vino da due cloni ottenuti in azienda. ‘La fortuna aiuta gli audaci’ e Leonardo trova nelle vigne ceppi di cui non si conosce la specie. Accurate ricerche scientifiche appurano trattarsi di un vitigno autoctono spagnolo ‘apparentemente’ mai coltivato in Italia: il Tempranillo.

Quasi una leggenda come il vitigno sia arrivato a San Miniato: una storia di fede, pellegrini e povertà (i pellegrinaggi si facevano a piedi e i pellegrini spesso portavano semi) e con protagonisti la Via Francigena e un parroco agronomo di San Miniato. La Via Francigena era un insieme di percorsi preesistenti (detti anche vie Romee): in prossimità di San Miniato, ve ne era uno con una stazione di posta (ne esiste testimonianza archeologica) da cui l’azienda Beconcini dista poche centinaia di metri. Per gli amici del buon vino importante è che il Tempranillo dal 2009 sia entrato nell’albo dei vitigni toscani e che abbia trovato un terreno capace di trasmettergli toscanità. Leonardo Beconcini lo declina in tre modi: IXE, uno splendido Tempranillo in purezza che sia per bouquet, sia per ricchezza di sentori al palato – se il mio ricordo non è offuscato dagli anni – è più coinvolgente di quello gustato in Rioja. Miracolo del terreno o bravura del vignaiolo? Il nome del vino deriva dalla pronuncia toscana della ‘x’ con cui erano identificate le vigne (ancora di epoca prefilossera) prima del responso del dna. Vigna delle Nicchie (nome dialettale delle conchiglie fossili marine di cui è molto ricco il terreno in cui le viti affondano le radici) è un vino unico: possente (15,5% vol.) ma piacevole, ottenuto da uve in appassimento per quattro settimane. Terzo nato nella famiglia dei Tempranillo è Fresco di Nero, un bel rosato intenso e brillante che, ahimè, avrei voluto degustare al Vinitaly insieme con due ‘bianchi’ che Leonardo, pur sostenendo che non sarà mai un produttore di vini bianchi, ha realizzato in omaggio alla voglia di sperimentare: Vea anno zero (100% Trebbiano toscano) in ricordo del padre che gli parlava del ‘Trebbiano rosa’ e PRS anno zero dalle uve di ‘Malvasia lunga’ (altro autoctono toscano) vinificate in purezza. Vitigni autoctoni, approccio unicamente biologico, rispetto del vitigno e dell’annata sono le fondamenta di un’attività volta alla difesa e valorizzazione di un territorio unico ed espressione di una vita basata su coerenza e umiltà: coerenza nelle scelte fatte anche quando si rivelano controcorrente e quindi incomprensibili ai ‘ragazzi del coro’ e umiltà nel rendersi conto che si può sempre apprendere.

Il tempo è passato velocemente nell’accogliente salotto – dove mi ha accolto dopo avermi ‘presentato’ i diversi vigneti percorrendo anche un tratto della Via Francigena che li attraversa – ed è rimasto poco spazio per il Sangiovese (primo e perdurante amore) cui Leonardo ha dedicato studi e ricerche. Il Sangiovese, sia in purezza sia in blend (sempre con vitigni autoctoni) è protagonista di vini notevoli. Due mi sono rimasti nella memoria: il Chianti Pietro Beconcini Riserva e il Reciso. Il primo è un blend di uve Sangiovese e Canaiolo (vitigno molto utilizzato nel Chianti cui dona morbidezza) provenienti da viti di oltre 50 anni dalla resa ottima (anche se limitata) per ottenere vini di grande livello. È un vino che sa di antico: è genuino e semplice anche se importante. Il Reciso è l’altro nettare il cui ricordo porto nel cuore: è ottenuto con una tecnica originale in vigna cui seguono procedimenti di vinificazione e maturazione tradizionali. È il frutto della passione di Leonardo per il Sangiovese ed è il primogenito del suo progetto enologico. Nato nel 1995 da due cloni di Sangiovese selezionati nei vecchi vigneti di famiglia, ha attraversato un quarto di secolo imponendo, indifferente alle mode, la sua austera personalità espressa da un intenso profumo di frutti di bosco in armonia con sentori di cuoio e caffè e tannini intensi, ma gradevoli. Il finale ricorda il cioccolato fondente.

Un finale che mi ha condizionato: per conservarne le emozioni ho rinunciato (dopo mi sono pentito) ad assaggiare almeno uno dei due Vin Santo (Caratello e Aria Occhio di pernice). Quella sera, però, allontanandomi nel tramonto toscano i sentori del Reciso mi accompagnavano riempiendomi di gioia mentre pensavo che passione per il Sangiovese è anche creare un Vin Santo utilizzando il vitigno in purezza.

Camminando tra storici edifici – che avrebbero da raccontare infinite storie non manipolate dagli uomini – mentre i profumi del tramonto si mischiano a quelli della cena, penso alla fortuna di vivere in un luogo così bello, ricco di stimoli e con una cucina genuina, sana e saporita. San Miniato è considerata “città del buon vivere” per la qualità della vita: dalle attività artigiane tradizionali come la lavorazione del cuoio a un impegno artistico che affianca a musei dai temi più vari (dal Museo della scrittura alla ricca raccolta di reperti archeologici dell’Oratorio del Lorentino) centri di cultura cinematografica e teatrale (il Centro di cultura cinematografica Paolo e Vittorio Taviani e il Centro Internazionale di Scrittura Drammaturgica) e numerosi festival come La Festa del Teatro (il festival di prosa più antico d’Italia), il Festival Internazionale La luna è azzurra’ (dedicato al Teatro di Figura) o la Rassegna di Musica Classica.

Naturalmente base del “buon vivere” sono la molteplicità e genuinità dei prodotti e la cucina locale che ha un grande protagonista: il Tartufo: l’evento clou di San Miniato è, infatti, la Mostra mercato nazionale del Tartufo Bianco a novembre (nelle vie e piazze del centro storico gli ultimi tre weekend). Tra i molti piatti dedicati mi fanno venire l’acquolina in bocca al solo ricordo la tartar di chianina al tartufo bianco o l’uovo cotto a bassa temperatura con crumble di porcini, fonduta di pecorino e tartufo bianco, ma non si possono ignorare in stagione i tortelli di zucca e mandorle con tartufo bianco e gli gnudi di ricotta con tartufo nero.

Ma non si vive di solo tartufo. A San Miniato e dintorni vi sono alcune chicche come il pomodoro grinzoso (il nome deriva dalle molte costole), l’oliva mignola (il cui olio piccante e leggermente amaro si sposa bene con le tradizionali zuppe, specie di cavolo), il carciofo (carnoso, morbido, saporito, senza spine e raccolto ad aprile e maggio) e tra gli insaccati il Mallegato (foto sotto) un raro esempio di sanguinaccio fatto senza carne suina (salvo un po’ di lardo). Il suo sapore è ancora quello di quando un banditore gridava per la città “c’è il buricco” (altro nome del sanguinaccio) e la popolazione correva ad acquistarlo essendo il modo più semplice ed economico per assumere ferro e proteine.

Come in tutta la Toscana, la carne ha vette di notevole bontà: si pensi alla chianina, alla carne di maiale o allo straordinario agnello (allevato nel vicino Parco di Migliarino San Rossore) dalla carne magra, tenera, compatta e delicata. Prima di allontanarsi da San Miniato è, quindi, opportuna una visita alla quasi centenaria (è del 1925) Macelleria Norcineria Falaschi in cui perdersi tra le molte tipicità e gustare nel ‘Retrobottega’ (un tempo laboratorio ora simpatico ristorante con una vista meravigliosa sulla città) prodotti e piatti: indimenticabili il Crostino di ragù di vitello chianina, la Tagliatella pomodoro e guanciale di suino grigio e il Coniglio in salmì. Nel mio cuore è rimasta una splendida Fiorentina, ma ero solo e lei pesava più di un chilo e mezzo…