Un nuovo itinerario, da Rovereto a San Daniele alla scoperta di vini, sapori e cultura

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Conoscevo Rovereto grazie al Mart (Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto) la cui bella struttura è firmata dall’archistar ticinese Mario Botta (la cui arte è seconda solo alla sua semplicità e simpatia) ma poco i suoi dintorni. L’occasione mi è data dallo scorso Vinitaly in cui ho scoperto una piccola cantina, un Davide tra tanti Golia, che mi aveva colpito per la classe dei suoi vini, esempio di come la qualità possa proiettare ai vertici piccoli produttori dalla grande passione.

Raggiungo quindi a Serravalle all’Adige l’Azienda Vitivinicola Alessandro Secchi che, immersa tra i vigneti della Vallagarina, ha il proprio punto di forza in un’articolata gamma di vini rossi (Pinot Nero, Cabernet Sauvignon, Coridone Rosso, Marzemino, Realgar e Merlot) anche se da una vigna sita nel vicino comune di Rovereto ottiene da un blend di Chardonnay, Sauvignon Blanc e Gewürztraminer un ‘bianco’ di notevole fascino per la sua eleganza, il ricco bouquet e le delicate note di mandorla: il Berillo d’oro.

La degustazione che ha coinvolto l’intera gamma dei ‘rossi’, pur avendomi fatto notevolmente apprezzare il Marzemino per le sensazioni di freschezza del ricco bouquet, per le note fruttate e floreali e per l’acidità e i tannini molto equilibrati, ha confermato la mia predilezione per il Merlot (vino generalmente non tra i miei preferiti) per la grande ricchezza di aromi speziati e un corpo notevole arricchito da grande morbidezza e armonia: un vino di rara eleganza come peraltro testimoniato dai premi conseguiti tra cui quest’anno la medaglia d’oro al Concorso Enologico Nazionale di Pramaggiore per l’annata 2015.

Dopo la tappa d’obbligo nella vicina Rovereto alla Casa di Depero perdendosi negli altrettanto inebrianti capolavori di questo genio esponente di primo piano del futurismo (il più originale e completo – secondo me – movimento culturale del Novecento italiano) e artista che in Italia ha elevato ad arte il manifesto pubblicitario, abbiamo deciso con la ‘dotta’ moglie – incuriositi dalla recensione di una pubblicazione locale che definiva il ristorante come “atipico” e ne sottolineava l’utilizzo di prodotti provenienti dal biodistretto delle valli locali – di sperimentare, a circa quattro chilometri dalla città nel comune di Trambileno (in auto si può giungere al Santuario Le Salette e percorrere poi un  breve tratto a piedi), il Ristorante Bosco dei Pini Neri.

Premesso che dalla terrazza si gode uno splendido panorama su Rovereto e i monti che la circondano dal Baldo al Bondone (mitico per gli appassionati di ciclismo) occorre dire che i piatti, se possibile, superano il panorama. Il segreto è semplice: la cucina tradizionale trentina è ‘riletta’ con intelligenza e raffinatezza ed è basata sulla stagionalità. Ottimo il rapporto qualità prezzo e impagabile l’accoglienza.

Lungo il percorso, ma già nel comune di Trambileno (il cui territorio è ricco di vestigia della Guerra 1915-18 come l’incredibile Forte Pozzacchio, esempio di ingegneria militare e di come la guerra sia uno spreco di intelligenza e denaro, o le fronteggiantesi trincee e linee fortificate italiane e austroungariche) è d’obbligo visitare l’Eremo di San Colombano che sembra far parte della roccia in cui è scavato a strapiombo sul torrente Leno. Percorrendo un breve sentiero e 102 gradini ricavati nella pietra si raggiunge la chiesetta che risale al X secolo (l’eremo pare fosse frequentato già nel 753) e sotto il tetto naturale sembra percepirsi lo spirito dei tanti eremiti che vi sono vissuti: una grande sensazione di pace avvolge il visitatore cui pare vivere attimi fuori dal tempo.

L’avventura cultural-enogastronomica verso il Collio friulano

Pace che si perde rapidamente ‘lottando’ nel traffico per giungere in Friuli terra ricca di grandi vini, salumi e formaggi e dalla cucina affascinante, sintesi di tre tradizioni: mediterranea, mitteleuropea e slava. Nei logici compromessi che comporta ogni viaggio con la famiglia si era stabilito che la prima tappa fosse la medievale Spilimbergo, una di quelle ‘perle’ italiane che turisticamente dovrebbe essere valorizzata molto di più e sede della Scuola Mosaicisti del Friuli conosciuta e apprezzata a livello internazionale sia per gli allievi che giungono dai cinque continenti, sia per i ‘pezzi’ che ovunque nel mondo abbelliscono edifici pubblici e privati. La scuola – che rientra in una tradizione culturale che nei secoli ha espresso artisti e letterati e ha coinvolto nobili e borghesi – è del 1922, ma la storia del mosaico a Spilimbergo è antica: risale, infatti, ai ‘terrazzieri’ dell’inizio del 1500 che potevano contare sulla gratuità dei vasti ghiaieti dei fiumi e torrenti che circondano la cittadina. Le origini di Spilimbergo sono probabilmente di epoca romana, ma le prime documentazioni ufficiali risalgono all’XI secolo mentre sono degli ultimi decenni del 1200 il Duomo in stile romanico-gotico e altri edifici storici.

Per un viaggiatore frettoloso percorrere Corso Roma (attraversa il centro storico e termina in Piazza Duomo da cui si accede al Castello la cui esistenza è documentata dal 1120) è come attraversare la storia della cittadina respirandone il fascino antico accresciuto dalla bellezza di alcune case dipinte. Tra le molte altre chicche in cui varrebbe la pena soffermarsi il quartiere di Valbruna, ancor oggi dalla struttura medievale, e le diverse chiese e chiesette ricche di affreschi. Soddisfatta la fame di cultura artistica, è l’ora di iniziare a conoscere la cultura del cibo friulano: eccoci dunque Al Bachero, tipico esempio di osteria di paese, la cui storia è iniziata nel 1897 come vendita di vini, marsala e vermouth (come recita l’antica insegna), oltre all’olio pugliese, seguita poi dall’offerta di qualche piatto caldo come il baccalà che è ancor oggi uno dei piatti di punta oltre al classico frico, alla polenta pasticciata, al salame all’aceto e ai dolci tipici.

Da Spilimbergo si arriva in pochi minuti a San Daniele che con i suoi prosciutti è un’icona tra i gourmet di ogni Paese, quindi ideale punto di partenza per il nostro ‘pellegrinaggio’ laico tra vini e sapori del Collio.

Prosciutti ma non solo. San Daniele offre, infatti, al visitatore una serie di chicche come la Biblioteca Guarneriana (fondata nel 1466) che abbiamo visitato su impulso dell’erudita moglie alla ricerca delle splendide opere miniate ivi custodite tra cui un’edizione del XIV secolo dell’Inferno dantesco. Tra le sorprese delle antiche e maestose librerie vi è la Bibbia Levantina caratterizzata da miniature con un mix di elementi occidentali e levantini.

Percorrendo le linde stradine dell’abitato (raccolto intorno al cocuzzolo di un colle da cui si gode un magnifico panorama sulla circostante pianura e sul Trasimeno), tra le molte suggestioni è da non perdere la Sistina del Friuli, come è definita la Chiesa di Sant’Antonio Abate per il complesso di affreschi datati 1497-1522.

Si dice che sia l’aria particolare a donare ai prosciutti quel sapore unico e inconfondibile, è certo che l’atmosfera e i profumi che si percepiscono esistono solo nelle strade e piazze di San Daniele e naturalmente nei 31 prosciuttifici (tutti con sede nella cittadina e rispettosi del rigoroso disciplinare) aderenti al Consorzio di privati sorto nel 1961 per salvaguardare un’antica tradizione. Nel visitare un prosciuttificio (molti sono quelli disponibili alle visite del pubblico) si prova l’emozione di veder creare un capolavoro frutto dell’attenzione, della sapienza secolare e della passione di chi vi lavora, emozione che giunge all’apice nei locali d’invecchiamento avvolti dall’inebriante profumo che si diffonde dalle alte pareti di corridoi formati da prosciutti appesi. Un’oasi di gioia.